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L'Avventura di Rinaldo

Published online by Cambridge University Press:  02 December 2020

Di Alfredo Bonadeo*
Affiliation:
University of California, Davis

Extract

I commenti e i saggi sui molteplici passi ed episodi che nell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto occupano un posto di primo piano nell'economia del poema e che, più importante, rappresentano un aspetto rilevantissimo della civiltà medioevale e rinascimentale, la cavalleria, sono praticamente tutti informati all'ammirazione per le gesta grandiose, le imprese eroiche, gli atti di coraggio, la forza eccezzionale e la superiore abilità nel maneggio delle armi dei cavalieri. Ma questo non può essere che un criterio di giudizio superficiale in vista dell'importanza storico-culturale dell'istituzione cavalleresca e dei differenti modi di manifestarsi del suo spirito nel corso della storia.

Type
Research Article
Copyright
Copyright © Modern Language Association of America, 1966

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References

1 Cf. S. Pivano, “Cavalleria” in Enciclopedia italiana, viii (1931), 523–542.

2 A proposito di questo aspetto dell'avventura di Rinaldo a ragione veduta P. Rajna osservava: “Ma forse mai un barone del ciclo di Carlo Magno fu convertito cosi espressamente in Cavaliere Errante come in questo caso, nel quale Rinaldo si mette a vagare per una gran selva in questa parte e in quella, ‘Dove più aver strane aventure pensa’.” Anche J. Hoole, un traduttore inglese del Furioso era già stato colpito da questa subitanea “conversione.” Le Fonti dell'Orlando Furioso (Firenze, 1900), p. 148 e nota 5.

3 Anche il commento dell'edizione U.T.E.T. al passo qui citato rileva l'“abilità” con cui Ariosto ha effettuato il trapasso da un Rinaldo carolingio a uno brettone senza per altro indicarne il significato: “E si noti … come l'Ariosto abbia saputo abilmente immergere nell'atmosfera brettone Rinaldo, che è tipico eroe carolingio e che è giunto qui spinto dalla missione carolingia di raccogliere aiuti per l'esercito francese.” L. Ariosto, Orlando Furioso a cura di R. Ceserani (Torino, 1962), i, 143.

Comunque è evidentemente difficile accettare questo subitaneo “split” nel modo di sentire ed agire di Rinaldo. È appunto noto che storicamente, culturalmente e letterariamente esiste una differenza considerevole tra la tradizione carolingia e quella brettone. Per un'esauriente ed acuta individuazione degli elementi differenziatori tra le due tradizioni cf. “Roland against Ganelon” e “The Knight Sets Forth” di E. Auerbach in Mimesis. The Representation of Reality in Western Literature (New York, 1953), pp. 83–107 e 107–124.

4 Per quanto riguarda “fama” e “pregio” P. Rajna e dopo di lui la maggior parte dei commentatori hanno osservato che l'onore e la gloria erano ideali estranei a quello cortese; cf. Le Fonti, cit., pp. 148, 149, e il commento dell'edizione U.T.E.T., p. 145: “Il desiderio di gloria è sentimento umanistico; i cavalieri arturiani cercavano piuttosto di tenere celate le proprie imprese e consideravano la modestia come uno dei loro primi doveri.” Per quanto riguarda invece “valor,” se lo si considera nell'accezione di forza fisica ed abilità nel maneggio delle armi allora, come s'è visto, non è di questo genere di valore che il cavliere cortese intende dar prova quando affronta l'avventura. Lancillotto, Erec ed altri personaggi dei romanzi cortesi subiscono spesso, nel corso delle loro avventure, sconfitte clamorose; temporanee sconfitte se si vuole, ma che sarebbero bastate, secondo questo criterio, a squalificarli dal rango di cavalieri di valore. Ma quelle sconfitte servono a stimolare o a mutare nella giusta direzione il corso dei pensieri e delle azioni del cavaliere, non a provarne l'inettitudine. D'altra parte se si considera “valor” nell'accezione di valore morale e spirituale allora la concezione dell'avventura del paladino rappresenterebbe un'inversione dei termini ideali dell'avventura cortese: mediante quest'ultima non s'intende affatto dar prova di valore in quel senso ma, al contrario, s'intende proprio acquistarlo.

5 Auerbach, p. 117. A questo proposito cf. anche R. Bezzola, Le Sens de l'aventure et de l'amour (Chrétien de Troyes) (Paris, 1947), pp. 85, 152. Che l'avventura di Rinaldo sia invece fittizia ed accidentale appare pure molto evidente dalla domanda del paladino ai monaci: “Come dai cavallier sien ritrovate / spesso aventure …” (ot. 55). Un cavaliere cortese, ancorchè fare una domanda simile a chicchesia, non l'avrebbe nemmeno fatta a sè stesso. I due veri ed importanti problemi di quest'ultimo sono, s‘è visto, il motivo per intraprendere l'avventura, che investe tutto il significato della sua esistenza, e il fine ultimo dell'avventura, “self-realization.” Al cavaliere cortese non avviene mai di dubitare, una volta ch'egli s‘è messo in cammino per affrontare l'ignoto, che non possa trovare avventure; egli non è mai preoccupato da questo che altro non è se non un elemento accessorio e d'ordine pratico. Invece nel caso di Rinaldo, un cavaliere appunto senza problemi personali o sociali d'ordine sentimentale o morale e che non può quindi sentire il bisogno dell'avventura in maniera profonda ed urgente, il modo di ritrovare avventure deve, di necessità, assurgere a problema di grande importanza; problema tuttavia irrilevante dal punto di vista della tradizione culturale e letteraria.

6 Non si tratta qui di una casuale confusione di due motivi importantissimi e ben distinti dell'avventura, cioè il motivo dell'innocenza di Ginevra espresso appunto dalla sua “pudicizia” e quello della colpa per aver lasciato “sfogar ne l'amorose sue braccia al suo amator tanto desire.” Questi due motivi riappariranno nel corso dell'avventura con un significato di primo piano. D'altra parte i due punti di vista non rappresentano, come potrebbe sospettarsi, l'espressione di due modi diversi ed opposti di giudicare il caso di Ginevra, quello dei monaci e quello di Rinaldo; infatti alla fine dell'intensa pronuncia contro 1' “aspra legge” e in favore del diritto all'amore Rinaldo “ebbe il consenso universale” (ot. 67), vale a dire il Consenso dei monaci presenti.

7 P. Rajna, Le Fonti, e G. Bertoni, L'Orlando Furioso e la Rinascenza a Ferrara (Modena, 1919), pp. 91–110.

8 G. Salvemini, La Dignità cavalleresca nel comune di Firenze in Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295 (Torino, 1960), p. 356.

9 Salvemini, p. 359.

10 Salvemini, p. 358. I risultati delle ricerche di Salvemini non sono valide strettamente per il Comune di Firenze come il titolo del saggio potrebbe suggerire, ma anche per la maggior parte dei comuni italiani ed alcuni paesi europei: cf. p. 360.

11 Salvemini, pp. 357, 358. Una fonte autorevole sulla decadenza cavalleresca nell'epoca comunale è naturalmente Dante: cf. specialmente Purgatorio xiv.109–111 e xvi.115–117.

12 Cf. J. Huizinga, “The Political and Military Significance of Chivalric Ideas in the Middle Ages” in Men and Ideas (New York, 1959), pp. 196–206, e il capitolo “The Political and Military Value of Chivalrous Ideas” in The Waning of the Middle Ages (New York, n.d.), pp. 93–107.

13 Per la trasformazione del valore degli ideali cavallereschi in rapporto alla realtà politica e sociale rinascimentale, cf. R. Kilgour, The Decline of Chivalry as Shown in the French Literature of the Late Middle Ages, Cambridge, Mass., 1937, A. Ferguson, The Indian Summer of English Chivalry, Durham, N. C., 1960 e H. Baron, “Secularization of Wisdom and Political Humanism: Rice's Renaissance Idea of Wisdom,” JHI, xxi (1960), 131–150.

14 Per le condizioni politiche e sociali, interne ed esterne degli stati italiani è sempre di capitale importanza la Storia d'Italia di F. Guicciardini, a cura di C. Panigada, Bari, 1929, 5 vols., che copre appunto il periodo in questione. Per le condizioni di Ferrara cf. J. Burckhardt, La Civiltà del Rinascimento in Italia, trad. Valbusa (Firenze, 1927), i, 52–62, G. Bertoni, L'Orlando Furioso e la Rinascenza a Ferrara, pp. 7, 8, e M. Catalano, Vita di Ludovico Ariosto (Genève, 1930), i, 104–116 e 179–201.

15 Catalano, i, 267 e nota 22.

16 Catalano, i, 491, 492. Ciò che rappresenta nel modo più esemplare e sensazionale questo carattere fittizio e irreale delle manifestazioni cavalleresche del tempo sono i tornei e il duello d'onore. Il torneo ha nel Rinascimento una storia già relativamente lunga ma il duello d'onore fiorisce invece proprio nel secolo XVI. Ambedue le pratiche ebbero una diffusione enorme in Italia e vi fece riscontro una parimenti enorme trattatistica. Il torneo con la sua pompa ed apparato impressionante nasce dalla necessità di trovare un mezzo per ottenere onore, gloria e beni materiali quando la reale possibilità di farlo nel campo di battaglia, resa ormai impossibile dalle pratiche esigenze militari, viene a mancare; cf. J. Huizinga, The Waning of the Middle Ages, p. 96, e S. Painter, French Chivalry: Chivalric Ideas and Practices in Mediaeval France (Baltimore, Md., 1940), pp. 60–62. Per manifestazioni di questo genere a Ferrara al tempo di Ercole I cf. B. Zambotti, Diario ferrarese in L. Muratori, Rerum italicarum scriptores (Bologna, 1934), 24:7:2, 81, 215, 216. D'altra parte il duellante d'onore, ricercando gloria e onore mediante motivazioni il più delle volte arbitrarie e sempre con le armi anzichè con la giustizia, impartisce a quella pratica un carattere, più ancora che irreale, disumano, minando cosi alla base la concezione dell'onore e della gloria tradizionale; cf. J. G. Millingen, The History of Duelling (London, 1841), i, 67, 70, e P. Rush, The Book of Duels (London, 1964), pp. 55, 56.

17 Cf. B. Zambotti, Diario ferrarese, pp. 4, 33, 46, 183, 189, 275. Per la diffusa e indiscriminata nomina di cavalieri tra i dottori e laureati dell'Università di Ferrara nel secolo XVI e il suo effetto negativo sulla qualità degli studi e dell'insegnamento cf. A. Visconti, La Storia dell'Università di Ferrara (1391–1950) (Bologna, 1950), pp. 58, 59.