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Published online by Cambridge University Press: 22 January 2018
This article compares the autobiographical practices used by the Partito Comunista Italiano (PCI) in the aftermath of the Second World War with those developed by Italian neo-feminism from the late 1960s onwards. The former involved a repeated injunction for activists to write about and express themselves upon joining the party, in what amounted to self-criticism. The latter, meanwhile, took shape as a result of self-consciousness exercises practised by feminist groups in various cities across Italy. The terms of comparison of this article aim to describe what changed and what remained the same in the technologies used to produce the political self within the Italian Left in the twentieth century, beginning from its split in the 1960s. In this context, the paper reveals that the communist and feminist experiences were supported by the same discursive mechanism, which hinged on a paradoxical enunciation of the self. Communist activists and feminists thus faced the same difficulty in political self-expression, which was resolved in two different ways, both equally unsatisfactory. In conclusion, examining the communist autobiographical injunction allows a radical critical reappraisal of the idea that the use of the first person and the political affirmation of subjectivity are determining features exclusively bound to the feminist experience.
L’articolo mette a confronto le pratiche autobiografiche utilizzate dal PCI dopo la seconda guerra mondiale e quelle messe a punto dal neo-femminismo italiano a partire dalla fine degli anni sessanta. Le prime assumono la forma di un’ingiunzione ripetuta alla scrittura e alla rivelazione del sé di carattere essenzialmente autocritico, che si innesca dal momento dell’iscrizione del militante al partito. Le seconde, invece, prendono forma a partire dall’esercizio dell’autocoscienza da parte dei gruppi femministi disseminati nelle città italiane. I termini di paragone di questo lavoro sono funzionali a descrivere trasformazioni e continuità nelle tecnologie di produzione del sé politico all’interno della tradizione della sinistra novecentesca italiana, a partire dalla rottura degli anni sessanta. A questo livello, come si vedrà nel testo, esperienza comunista e femminista sono rette dallo stesso meccanismo discorsivo imperniato sull’enunciazione paradossale del sé. Militanti comunisti e femministe si trovano perciò davanti a una stessa difficoltà di dirsi politicamente, che viene risolta in due modi diversi, ma in modo egualmente insoddisfacente. In conclusione, partire dall’ingiunzione autobiografica comunista consente una radicale ridiscussione critica dell’idea che prima persona e affermazione politica della soggettività siano tratti determinanti ed esclusivi dell’esperienza femminista.