Published online by Cambridge University Press: 15 March 2011
page 628 note 1 Polo, Marco, Il Milione, prima edizione integrale a cura di Luigi Foscolo Benedetto (Firenze, Olschki, 1928), p. CCXXIGoogle Scholar.
page 629 note 1 Polo, Marco, Il libro di Messer Marco Polo cittadino di Venezia detto Milione dove si raccontano le meraviglie del mondo (Milano, Treves, 1932), pp. XXIII–XXIVGoogle Scholar.
page 630 note 1 Il M. ha avuto la buona sorte di poterci dare la sua edizione di sul codice della Biblioteca capitolare di Toledo su cui fu esemplata la copia ambrosiana da me adoperata, codice che io ritenevo disperso non figurando come avrebbe dovuto nel catalogo a stampa dei mss. zeladiani di quella biblioteca ed avendo i canonici possessori del codice stesso, come avvertivo nel mio libro, lasciate senza risposta le mie richieste in proposito. In fatto di critica testuale gli originali sono sempre preferibili, non c'e dubbio, alle copie, anche se fatte egregiamente. Ma dal punto di vista pratico il trovamento del codice di Toledo è lungi dall'avere l'importanza che gli fu attribuita e dal meritare il chiasso oltremodo ingenuo che ha suscitato. Gli dobbiamo un solo apporto utile. Mentre la copia milanese ha Icoguristan, esso ci dà la lezione esatta, intuita subito dagli orientalisti: luguristan. I pochi errori della copia erano di per se facilmente sanabili ed ho avuto il piacere di vedere confermate le correzioni da me proposte nei passi da me editi o adottate nella mia traduzione italiana. È risultata assolutamente fededegna la garanzia di fedeltà, quanto a trascrizione, apposta sulla copia milanese dal Toaldo, il marcopolista che essa copia fece eseguire. Avevo del resto confrontate coi rispettivi modelli le altre copie di testi poliani che il Toaldo fece levare: la fedeltà è in tutte assoluta.
page 631 note 1 veda, SiThe Times Literary Supplement del 4 febbraio di quest'anno, p. 77Google Scholar.
page 632 note 1 Il numero poteva essere maggiore. II M. dà qualche volta da altra fonte delle cose che avrebbe potuto prendere da Z. Gli è sfuggito, nonostante la sua grande minuziosità, un multi degnissimo, secondo i suoi criteri, di essere inserito. Z (p. XVIII): “per earn discurit quoddam flumen in quo lapides inveniuntur multi” dove F ha soltanto “ il hi a flum que i se treuvent pieres.” II M. dimentica pure di sottolineare, sì che figura come desunto da F, un red ehe ha la sua sola giustificazione in Z (p. 267 della trad, del M. e p. XXVIII di Z).
page 633 note 1 Già nelle mie edizioni popolari del libro di Marco, e cioè nella mia traduzione italiana e nella sua sorella inglese (Routledge, 1931), avevo aggiunti alcuni nuovi apporti da Z omessi nel Marco Polo maggiore (“ multi luci dactuhs producentes ”,“ falcones laneri et sacri,” “CCX thoman sadiorum aureorum,” “faciunt vinum de datalis,”etc.). Ma solo esaminando la traduzione del M. mi sono accorto di queste altre omissioni: Z, p. IX, sibi oculum dextrum effodit—XV, et multa alia—XVII, inter levantem et grecum (F por grec)—XX, et illi sunt plures—XVIII, terra fertilis est [et] fecunda necessariis quibuscumque (nel mio apparato ho dato questa novità come da R senza notare che c'era anche in Z)—XXXI, christiani turchi—XXXI, set principales sunt ydola adorantes—XLVII, pecuniam—L, monetam habent de cartis—ibid., monetam habent de cartis—ibid., respondent civitati Qinsai gentes adorant idola et sunt sub dominio magni can—ibid., monetam habent de cartis—LI, diverse maneries specierum—LI, cuius gentes adorant ydola . . . et respondent civitati Fugiu—LXIV, in pluribus locis—LXVII, et loquelam—LXXIII, suximan—XCI, syricum—CXXIII: et Ulau cum suis gentibus obviam eis iverunt—CXXIX, habent ceram multam.
page 634 note 1 Mi paiono oggi supplementi più che probabili: F CLXXV 155, “ne le recevent [a tesmognie] ne ne vaut sà tesmognie,” conformemente a Z (p. LXXIV), “ in testem non assumunt nee testimonium suum valet”—F CLXXVI, 7, “elle ne vost prendre [autre] baron” conformemente a Z (p. LXXVIII) “noluit alium virum aocipere ” (supplemento già da me adottato del resto nelle mie traduzioni)—F CLX 18, “elle est [si] riohe isle que. . . .”, conformemente a Z (p. LIX), “ista insula est tam dives.”
page 634 note 2 Alia p. 156 della sua trad, il M. ci dà come da Z “is found a good vein”, mentre Z ha soltanto, nel passo corrispondente, “quedam vena.” Alla p. 190 ci dà come da Z “monasteries so large”, mentre F ha si grant mostier e Z tam magna monasteria. Alla p. 295 dà come da Z uno slaves che ha il suo corrispondente il F (esclaus), mentre dà in più come da F uno slavegirls cbe nulla giustifica. Alla p. 420 segna come da Z un there: Z ha “et est ibi optimum dormire” che è però la traduzione letterale di F “ et hi a trop buen dormir”. Alla p. 486: “and will turn back to Nogai.” Perchè quel back sottolineato come da Z ? F ha torneron a Nogai e Z ad Nogay et suos redibimus (lo zeladiano di Toledo ha rediemus, ma è certo errore del copista). Alla p. 488 dà come da Z “dead and wounded to death”. Z ha effettivamente “mortui et vulnerati ad mortem”, ma anche F, la sua fonte, ha “ mors et inavrès d mors”.
page 636 note 1 Darò un solo esempio, tipico nella sua brevità. F: amè de celz de son reigne—Z: a sua gente diligitur (traduzione libera ma esattissima)—Moule: by those her people of his realm.
page 636 note 2 Si può aprire il libro a caso tanto gli esempi abbondano. F: LVII 20–2: “Et plosors foies les font devoier en tel mainere qu'il ne se trevent jamès; et en ceste mainere en sunt ja maint morti e perdu.” Z: “see faciunt a recto tramite deviare et sic nesciunt reverti. Et cibo potuque catena decedit. Hoc vero modo multi homines perierunt.” La parte sottolineata di Z è, evidentement, una semplice glossa del traduttore, indipendente anche grammaticalmente dal resto. Le due parti di Z non sottolineate corrispondono assai bene ai due membri della frase di F. IIM. procede ad un vero e proprio rimpasto, levando la glossa di Z dal suo posto e inserendola, come può, nella proposizione finale. Ecco la sua frase, da cui tolgo le cose ch'egli desume da fonti diverse da Z e che insacca parimente nella prosa di F, ed in cui sono sottolineate dal M. stesso le cose che riconosce come peculiari a Z: “ And many times they make them . . . go out of the right way so that they are never . . . found . . . and in this way they know not how to return, and being without food and drink many of them are dead in the past and lost.” F dice del petrolio del Caucaso: “bon a onger les gamiaus por la rogne et por les farbores.” Z: “bonum est ad ungendum homines et quelibet animalia propter scabiem.” Checchè si decida sulla paternità di quell'homines, è certo che Z traduce a senso, che in quelibet animalia sono compresi anche i cammelli e che scabies sta per rogne et farbores. IIM. ci dà due volte le stesse cose cucite alia bell'e meglio : “to anoint men and any animals for the scab [and] the camels for the itch and for the mange.” Con questo sistenia il M. non si accorge che spesso non solo traduce due volte la stessa parola, ma la traduce in modo diverso. In F: “ caustiaus asez que sunt homes que vivent . . .” Z, poco felicemente ma senza infedeltà sostanziale : “ castra in quibus sunt multi homines de mercimoniis viventes et artibus.” II M.: “ Villages enough in which are many people for they are men who live. . . . ” Non si awede che ha tradotto due volte il que di F, prima con in which e poi con for. Sono frequenti in Z le esplicazioni di parole col sive. Ciò che prova che sono glosse di Z e non precisazioni di Marco Polo è che questi ci dà prima il termine proprio, tecnico, e poi lo spiega ; Z invece comincia col darci la traduzione latina e poi, per maggior precisione, il termine marcopoliano. F CXCVIII 17: eel soudan—Z: ille rex sive soldanus. II M. senza rendersi conto del particolare travaglio stilistico di Z ed invertendo: “that sultan or king.”
page 637 note 3 Un esempio tra i tanti. F: la boce si grant que bien engloiteroit un home a une fois. Z: os tam magnum quod deglutirent integrum unum bovem. II traduttore latino aveva dinanzi un testo che aveva buef invece di home. II M.: “ the mouth so large that it would swallow a man [or] an ox at one time.” Qui e altrove la copula aggiunta è tra parentisi quadre, ma non sempre.
page 638 note 1 Si veda a titolo di esempio il passo corrispondente a F CLXXIX, 21: “ II dit a soi meesme qu'il li fira couse que sou filz se rendra. . . . ” Z non ha trovato un corrispettivo latino soddisfacente per dire a soi meesme e ha tradotto un po' goffamente: “ Tune rex preoogitans dixit quod talem medioinan.…” IIM. (p. 408 della sua versione) non si accorge che precogitans dixit è una cattiva traduzione di dit a soi meesme e combina al solito modo: “and then the king after deep thought . . .says to himself. . . . ” È spesso sorprendente la sottigliezza con cui il M. analizza, quasi dovessero avere un valore secondo l'etimo e come se fossero sempre parole della latinità più classica, le parole di Z. Gli sarebbe stata utile una migliore conoscenza del latino medievale. Gli capita di tradurre probi ( = valorosi) con trusty.
page 642 note 1 Non ricordo che due punti in cui sopprimo qualcosa di F. Ho soppresso, influenzato dalla tradizione, nella descrizione della reggia di Quinsai, alcune linee che tutti ritenevano inconciliabili col testo piu accettabile de Ramusio. (Dirò in altra sede quali sieno le mie idee attuali su quell'argomento). Al cap. XLV (l. 9) facoio sparire un toponimo che ha dato enormemente del filo da torcere ai commentatori, Dogana, toponimo che il M. conserva sotto la forma Dogava. Più che una soppressione è una correzione poichè gli sostituisco Taican. La correzione mi parve imposta dall'esame stilistico e interno del passo, nonchè dall'esame delle varianti che di quei nome ci dà la tradizione manoscritta. F dice: “Or nos laison de ceste citè e enterron a conter d'un autre pais que s'apelle Dogana.” È la consueta formola di chiusa che annuncia il soggetto di un nuovo capitolo. Ora, non segue nessun capitolo su Dogana. II testo quale oggi l'abbiamo continua: “ Quant Ten s'en part de ceste citè que je vos ai contè il chevauche bien XII journee . . . et quant l'en a alès ceste doçe jornee il treuve un caustiaus que est apellès Taican.” Bisogna identificare Dogana col paese, lungo dodici giornate, tra Bale e Taican ? L'espressione ceste citè si riferirebbe allora a Bale e mancherebbe solo, per rendere il capitolo stilisticamente poliano, una ripetizione, a I. 13 o 15, et ceste contree s'apelle Dogana. O ceste citè si riferirebbe invece a Dogana—come pensa il Penzer—e ci sarebbe allora nel testo una lacuna ? Ma è poco probabile si tratti di una città: essa dovrebbe trovarsi tra Bale e Taican a una distanza di 12 giornate, distanza già eccessiva per il tratto tra Bale e Taican e che lo diverrebbe anche di più per il tratto fra Taican e una città intermedia (a meno che 12 sia un errore ed abbia ragione il Ramusio che ha 2). La formola di chiusa che abbiamo citata parla del resto di pais. Tutto si appianerebbe se si potesse ammettere che quella formola c'introduce ad un nuovo capitolo: su Taican, paese e città. Non ci può stupire nel Polo la confusione della contree o provence e della citè principale che ha con essa comune il nome. (Si veda, nella nostra edizione del 1928, la chiusa dei capitoli CXXXV e CXXXVI e il principio rispettivamente del capitolo successivo). Ad una tale ammissione ci autorizza la critica del testo. Dogana è attestato soltanto da F. II nome e la frase che lo contiene mancano in Z, R, TA, VA. Delle famiglie che ci servono al controllo di F una sola, FG, lo contiene, ma nella forma Gana (o Gava). La sillaba iniziale può essere benissmo un antico de, preposizione (in una rubrica più sintetica: pais de Gana). È ovvio, per chi sia un po' pratico di mss. medievali, pensare ad un Gana cattiva lettura di Taica (per Taican, chè l'apice nasale non è raro venga omesso o spostato: troviamo in V, invece di Taican, Tanica). Non era naturale, per chi non fosse affetto da fanatismo cieco per F, correggere Taican ? Non è forse stato costretto il M. stesso, per mettere d'accordo la sua edizione col commento del Pelliot, a modificare molto spesso e molto profondamente la grafia dei toponimi di F ? Ci manca lo spazio per esaminare come vorremmo almeno i più tipici tra i dissensi tra la mia traduzione e quella del M., per mostrare praticamente a che cosa si riduca nei punti difficili la pretesa fedeltà del traduttore inglese. Ci permetta il lettore un esempio solo. Leggiamo in F VIII, 15–19: “ II mandoit disant a l'apostoile que il li deust mander jusque a cent sajes homes de la christiene loy… que bien seusent despuer et mostrer apertamant a les ydules … que lor loy estoit tout autrament et toute les ydres qu'il tient in lor maison et adorent sunt coses de diables.” IIM. traduce: “that all their religion was erroneous.” Non badiamo a quell'all che passa qui a qualificare religion mentre nel testo fa un tutto solo con autrament; sorvoliamo sulla sottolineatura di religion was e sul rinvio marginale che ci presenta quelle parole come desunte da TA, mentre ci sono tutte e due in F: loy = religion). Come fa quell'erroneous a tradurre tout autrament? II passo di F è certamente mutilo. Non può contenere soltanto l'idea che cristianesimo e idolatria sono due cose diverse: non erano necessari per rivelare tanta verità dei dotti teologi e degli abili controversisti. Perchè quel tout autrament acquisti il suo significato normale bisogna integrare il passo press'a poco così: “que seusent mostrer apertamant … que lor loy n'estoit evre de Dieu, mais qu'elle estoit tout autrament,” cioè opera diabolica. Si confronti con ciò che Marco stesso dice a proposito appunto degli idolatri (F LXXV, 52–5): “Et ce qu'il font il le font por are de diable et font eroire a les autres jens qu'il le font por grant santetè et por evre de Dieu.” Si veda pure il passo peculiare al Ramusio (F LXXXI, pag. 71, nota a), passo che rieccheggia visibilmente le linee in questione: “Et dicono questi idolatri che quel che fanno lo fanno per santità e virtù degli Idoli . . . dichinli che loro sanno e possono far tal cose, ma non vogliono perchè si fanno per arte diabolica e di cattivi spiriti. …” Siamo evidentemente dinanzi alia tipica concezione medievale della doppia verità religiosa, di origine divina e di origine demoniaca, concezione in cui è implicita la credenza, accettata per tanto tempo anche dagli spiriti più alti, al doppio miracolo, a quello divino e a quello diabolico cioè magico. L'erroneous del M. non solo tradisce la lettera di F, ma anche, quel che è più grave, lo spirito.